IL GRANDE BLUFF DEL DIGITALE TERRESTRE
di Mario Albanesi
Il digitale terrestre è nato male, anzi, non doveva proprio nascere;
stabilendo il passaggio fra
sistema televisivo a diffusione analogica a quello digitale, il Parlamento
europeo ha ceduto
alle pretese lobbistiche di chi guardava alle prospettive di potere facendosi
scudo del
“progresso tecnologico”. Le diffidenze in tutti i Paesi europei verso questo
“progresso” sono
state tante perché, mentre il sistema analogico consente ricezioni anche in
presenza di deboli
segnali, il digitale non ha mezze misure: si vede o non si vede. Non a caso i
tempi sono stati
stabiliti dalla Ue al 2012, pensando che la sperimentazione finisse per
accertare in modo
inoppugnabile i benefici, ma in Italia si è colta la palla al balzo per
risolvere certi problemi di
bottega - primo fra tutti quello di Rete4 - decidendo di bruciare le tappe a
favore delle reti
nazionali private e del mondo degli affari oscuri. Non si scelse la strada del
vero avanzamento
tecnologico di qualità e del risparmio che poteva essere ottenuto con il
potenziamento delle
trasmissioni da satellite, che consentivano tra l’altro un enorme risparmio
energetico: un solo
trasmettitore per ciascun bouquet a copertura di tutta Europa contro i circa
1.500 necessari
per “illuminare” il solo territorio italiano.
Questa soluzione avrebbe consentito l’esistenza in “parallelo” dell’analogico
terrestre a scelta
dell’utenza, evitando di mandare al macero un numero spaventoso di ricevitori;
inoltre,
potevano essere abbassate le potenze di trasmissione, diminuendo gli sprechi in
tempo di
grave crisi economica. A differenza di quanto dichiarato dal ministro Scajola e
dal suo vice
Romani, l’inquinamento e il dispendio energetico non potranno essere ridotti, ma
aumenteranno perché le difficoltà legate alla difficile ricezione in digitale
per coloro che non
hanno la ventura di risiedere vicino alle antenne di trasmissione, si tenterà di
superarle
impiegando, rispetto all’analogico, un numero superiore di apparati di
trasmissione e potenze
a radio frequenza maggiori. Il quadro generale che si presenta per gli operatori
e gli
ascoltatori è dunque indefinibile e presenta anche aspetti comici; non a caso
Mediaset, Rai e
La7 hanno cercato di correre ai ripari in base alla previsione che la ricezione
dei loro canali in
certe zone sarà difficile, fondando una società chiamata Tivù Sat che si avvale
di un satellite.
Possiamo a questo punto immaginare, tra il serio e il faceto, la condizione di
un ascoltatore
abbonato a Sky che ha l’abitazione fuori dal campo di ricezione Rai, Mediaset,
La7. Già in
possesso del decodificatore per la sintonizzazione di Sky, per vedere Tivù Sat
avrà bisogno di
un secondo; se poi vorrà vedere anche le emittenti locali avrà bisogno di un
terzo
decodificatore, il tutto condito dalla continua commutazione dei tre dispositivi
verso le prese
scart del televisore e con in mano ben quattro telecomandi, uno per accendere
l’apparecchio
e gli altri tre per effettuare la ricerca! Queste ultime difficoltà potevano
essere attenuate se
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni avesse disposto, come da sua
stessa delibera -
la 216/00cons - l’adozione di un decodificatore unico, ma la sua incapacità e
imprevidenza
difficilmente potranno essere recuperate perché nel frattempo sono stati venduti
un gran
numero di televisori con un solo decoder incorporato, non modificabile.
Grave la situazione, poi, in cui si troveranno le altre reti nazionali e locali
che per gli alti costi
non sono in grado di valersi di Rai Way che, come abbiamo già visto, ormai è a
disposizione
di Rai, Mediaset e La7. Esse rischieranno l’estinzione perché perderanno quel
vantaggio che
oggi consente ancora all’utenza in appena 20 secondi di esplorare con il
telecomando tutta
l’offerta del momento fermandosi sul programma che gli interessa: gli
ascoltatori, un po’ per
le difficoltà di ricezione, un po’ per la ricerca complicata, finiranno per
ignorarle orientandosi a
seguire le emittenti visibili con più facilità. Ovunque sono cessate le
trasmissioni in analogico
si sono manifestati i contorni di una possibile catastrofe: in Sardegna
centinaia di comuni
sono rimasti privi di segnali che erano soliti ricevere, e per il Piemonte il
deputato Giorgio
Merlo afferma: «Decine di comuni montani sono stati lasciati (dopo
l’interruzione delle
trasmissioni in analogico, ndr) allo sbando e privi di ricezione televisiva.
Una sorta di interruzione di pubblico servizio ». Come tamponare gli effetti di
una scelta
sbagliata, aggravati da una serie di grossolani errori commessi dal ministero
per lo Sviluppo
economico e dall’Autorità per le garanzie (sic!) nelle comunicazioni? In primo
luogo con la
cessazione del silenzio stampa voluto per non turbare la grande festa del
digital divider ossia
la divisione delle frequenze fra coloro che ne hanno già tante (reti nazionali,
telefonia, ecc.),
buona parte delle quali è rappresentata da editori di giornali e televisioni in
palese conflitto di
interesse; in secondo luogo ridisegnando il numero dei canali delle reti
nazionali che
ambiscono a restare incontrastate padrone del settore; terzo, bloccando il
processo di
distruzione dell’esistente per almeno due anni come stabilito dall’Unione
europea. Non sarà
facile toccare interessi pianificati, ma la forza della protesta potrebbe
riuscire a condizionarli.
tratto da:
www.terranews.it
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